Decesso di una persona: presumibile la sofferenza morale per i familiari
A nulla può rilevare, secondo i giudici, il fatto che la vittima ed il superstite non convivessero o che fossero distanti
In materia di risarcimento del danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale, la morte di una persona causata da un illecito fa presumere da sola una conseguente sofferenza morale in capo ai membri della famiglia, a nulla rilevando né che la vittima ed il superstite non convivessero, né che fossero distanti.
Questo il punto fermo fissato dai giudici (ordinanza numero 22901 dell’8 agosto 2025 della Cassazione), i quali, chiamati a prendere in esame il delicato di un suicidio all’interno di una struttura ospedaliera, aggiungono che per smentire la presunzione di una sofferenza morale per la morte di un familiare è necessario dimostrare che vittima e superstite fossero tra loro indifferenti o in odio e che di conseguenza la morte della prima non abbia causato pregiudizi non patrimoniali di sorta al secondo.
Va poi tenuto presente che la presunzione della sofferenza morale concerne l’aspetto interiore del danno risarcibile (sofferenza morale, appunto), mentre non si estende all’aspetto esteriore (danno dinamico-relazionale), sulla cui liquidazione incide la dimostrazione dell’effettività, della consistenza e dell’intensità della relazione affettiva tra vittima e superstite.
A dare origine al contenzioso sono madre, padre, fratello e sorella di una donna che, affetta da cecità assoluta e da disturbi psichici, ricoverata nel reparto di degenza ordinaria di una struttura ospedaliera, prima tenta il suicidio ingerendo della candeggina e poi si lancia nel vuoto da una delle finestre del quarto piano dell’edificio ove si trova ricoverata, salendo su una sedia posta nella stanza adiacente a quella in cui è ospita.
Conseguente la richiesta di risarcimento avanzata dai familiari della donna nei confronti dell’azienda ospedaliera: in ballo, complessivamente, oltre 900mila euro.
In Appello, però, il ristoro economico riconosciuto dai giudici è molto più contenuto: la struttura ospedaliera viene condannata a versare 168mila euro in favore di ciascuno dei genitori della vittima e 24mila euro in favore di ciascuno dei fratelli della vittima.
Indiscutibile la posizione di garanzia che il personale della struttura rivestiva, i giudici d’Appello hanno reputato sussistenti tanto la prevedibilità in concreto dell’evento non impedito quanto il nesso di causa fra la condotta colposa addebitata alla struttura e il decesso della paziente.
Poi, in tema di risarcimento del danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale, la sussistenza del pregiudizio per i soggetti uniti da uno stretto legame di parentela col defunto è assistita, spiegano i giudici d’Appello, da una presunzione iuris tantum, non smentita, in questa vicenda, da una prova contraria. In particolare, si può presumere – in ragione della grave forma di depressione e della schizofrenia paranoide di cui soffriva la donna suicidatasi – che le relazioni personali con i suoi congiunti ne siano state ampiamente condizionate.
Questa visione viene pienamente condivisa dai magistrati di Cassazione, i quali precisano che la morte, causata da un illecito, di una persona fa presumere da sola una conseguente sofferenza morale in capo ai membri della famiglia, a nulla rilevando né che la vittima ed il superstite non convivessero, né che fossero distanti (circostanze, queste ultime, che possono essere valutate ai fini del quantum debeatur). In tali casi, grava sulla parte ritenuta responsabile dell’illecito l’onere di provare che vittima e superstite fossero tra loro indifferenti o in odio e che di conseguenza la morte della prima non abbia causato pregiudizi non patrimoniali di sorta al secondo.
In generale, poi, la presunzione iuris tantum (che onera il convenuto della prova contraria dell’indifferenza affettiva o, persino, dell’odio) concerne l’aspetto interiore del danno risarcibile (cosiddetta sofferenza morale) derivante dalla perdita del rapporto parentale, mentre non si estende all’aspetto esteriore (cosiddetto danno dinamico-relazionale), sulla cui liquidazione incide la dimostrazione dell’effettività, della consistenza e dell’intensità della relazione affettiva (desumibili, oltre che dall’eventuale convivenza – o, all’opposto, dalla distanza – da qualsiasi allegazione, comunque provata, del danneggiato), delle quali si deve tenere conto, ai fini della quantificazione complessiva delle conseguenze risarcibili derivanti dalla lesione estrema del vincolo familiare.